
Si intitola Manuale di Volo per Uomo. È l’ultimo spettacolo dell’eclettico cantautore, attore e autore teatrale Simone Cristicchi. Lo ha scritto insieme a Gabriele Ortenzi e lo ha interpretato ieri al Teatro Puccini di Firenze. Replica questa sera alle 21.
La sua nuova invenzione drammaturgica, prodotta da TSA Teatro Stabile d’Abruzzo / CTB Centro Teatrale Bresciano, in collaborazione con Corvino Produzioni, è una favola metropolitana ambientata nel mondo attuale, un uppercut di chiaroscuri e di poesia. Non un’esortazione a tornare bambini e a ritrovare il fanciullino che, come scriveva Giovanni Pascoli, è comunque dentro di noi anche da adulti, ma un volo sul nido del cuculo di un personaggio con una storia interiore dura da raccontare e affascinante all’ascolto.
Ascetico, inquieto, tormentato come non mai, Cristicchi è, nello spettacolo, un figlio di chissà quanti dèi minori, un figlio da inventare al cospetto di una madre pressoché ignota, un on the road vivente nel chiuso algido di quattro mura, alla ricerca di un cielo in una stanza vissuta come confine esistenziale e, insieme, come parallelepipedo di vetro da cui osservare il fuori da sé con gli occhi più di un ragazzo che di un adulto.
Occhi che, comunque la si guardi, enfatizzano la realtà e contemporaneamente ci ricordano di prestare attenzione a dettagli e particolari, finché un vecchio zio non gli lascia in eredità il suo Manuale di volo per uomo, un concentrato di frasi e consigli, disegni, pensieri e parole, per navigare e collocarsi in questo complesso mondo.
Forse l’Antonio di Ti regalerò una rosa può davvero trasformare il salto nel buio in un “volare” che significhi non sentirsi e non essere mai soli, immergersi nel quotidiano e godere della bellezza del Creato, sempre percepibili, sempre intorno a noi? Neurodiverso? Genio? Super-Sensibile?
Domande alle quali il testo e Raffaello, questo il nome del personaggio interpretato da uno straordinario e sempre più maturo Simone Cristicchi, rispondono solo in parte. D’altronde, per comprendere la psiche umana, i suoi itinerari e i suoi effetti sul comportamento di un singolo e della massa, a volte sono più utili pochi e azzeccati punti interrogativi rispetto a esclamazioni, prese di posizione e atti di fede.
Noi, per vicinanza d’animo, abbracciamo la nobile e polisemantica ambiguità della finta etimologia finale di un’inesistente forma “a-mors” (alfa privativo più morte in latino), ovvero un ipotetico vocabolo “senza morte”, dal quale deriverebbe la parola più bella di tutte: amore.
Un’etimologia che in altri tempi avremmo definito “alla Isidoro di Siviglia”, tanto è improbabile, ma che ora si rivela tutt’altro che amorale, semmai morale e umorale, per un monologo divinamente sincretico e concretamente spirituale.
Un testo in cui l’ultima parola è proprio amore, un sentimento insieme livido e colorato, conquistato e incerto, fronte rivolta al cromatismo della scena e spalle al pubblico, come a dire che, per andare avanti nella strada della vita, è consentito anche addormentarsi su un fianco, una posizione naturale che lascia aperta la via del futuro, non intacca la scia del passato e permette comunque di scartare di lato, come il bufalo di una nota canzone della metà degli anni ’70 del secolo scorso che ha più o meno la stessa età proprio del grande Simone Cristicchi…
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